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La pressione sociale online: come nasce la dismorfia digitale

Con la nascita di Facebook nel 2004 (in Italia dal 2008) è iniziata una rivoluzione di cui forse solo ora iniziamo a vedere le conseguenze sul lungo periodo. Negli ultimi 19 anni la galassia social ha cambiato la vita delle persone in ogni suo aspetto, individuale e sociale: l'integrazione sempre più stretta del digitale nella quotidianità ha creato un habitat in cui ognuno può esibire una versione di sé quasi identica alla realtà, editata e corretta per mostrare solo ciò che si desidera; inoltre, il salto tecnologico avvenuto tra la fine degli anni zero e gli anni 10 del Duemila, ha fatto evolvere i social verso una nuova dimensione fortemente visuale in cui l’estetica è determinante.

Tra il 2007 e il 2010 smartphone, tablet e reti wi-fi creano l'ecosistema tecnologico necessario a portare la vita social sempre con sé; le app di maggior successo sviluppate negli anni successivi - Instagram nel 2010 e Snapchat nel 2011, consentono l’applicazione di filtri che trasformano il viso in cagnolini o fate, ma possono anche accentuare o nascondere determinate caratteristiche fisiche. Contemporaneamente viene rilasciata anche la prima versione di Facetune, applicazione specificatamente progettata per rendere i volti più attrattivi in foto e video grazie all’uso di Beauty Filters.

Questo cambio di medium ha segnato un punto di svolta nel modo in cui le persone interagiscono con i social: i contenuti visivi (rispetto a quelli testuali) hanno velocizzato la fruizione e modificato gli argomenti, le telecamere frontali hanno trasformato telefoni e pc in riflettori sempre pronti ad accendersi soprattutto per Gen Z e Millennials. In un sondaggio dello scorso anno condotto in Gran Bretagna, si è visto come più del 70% ritocchi i propri selfie prima di pubblicarli, concentrandosi soprattutto sulla grana della pelle e la forma delle labbra; e se la generazione dei Baby Boomers ha passato la vita a chiedersi se la televisione e i videogiochi avessero reso i millennials degli sfaticati proni alla violenza, ora succede spesso che si parli della Gen Z come egocentrica e ossessionata dal proprio aspetto. Quello che è necessario tenere in considerazione però è che questa è la prima generazione di nativi digitali che conosce i social media fin dall’infanzia e che si rapporta con la propria identità online in maniera del tutto diversa; allo stesso tempo rimane fondamentale chiedersi quali conseguenze avrà sulle persone e sulla società un mondo immateriale pieno di doppelgänger sempre riposati, illuminati dalle giuste luci o che sembrano usciti da un appuntamento in una clinica estetica.

Dismorfia digitale e dimensione reale

Nel 2015 un medico specializzato in chirurgia estetica Tijion Esho conia l’espressione Snapchat dysmorphia per indicare un nuovo fenomeno legato alla sua professione. In un articolo descrive come in passato molti pazienti portassero ai medici immagini di attori e personaggi famosi come riferimento mentre oggi, sempre più spesso, chi si rivolge a uno specialista porta con sé un selfie editato da una intelligenza artificiale. Un cortocircuito in cui alcune persone finiscono per ritrovarsi frustrate nel vedere determinati risultati in un’immagine e l’impossibilità di ottenere quello stesso effetto nella realtà. Un fenomeno simile è la Zoom dysmorphia (2018) descritta come un disagio o l’eccessiva attenzione a dettagli del viso durante le videochiamate. A questo punto è importante sottolineare che questi esempi non sono definizioni mediche però evidenziano come determinati strumenti digitali possano generare reazioni negative e in alcuni casi sfociare in patologie. In un recente articolo per Agendadigitale Marco Lazzeri ed Eleonora Stingone, specializzati in cyberpsicologia, contestualizzano e definiscono cosa sia la dismorfia digitale:

"le immagini modificate digitalmente creano una disgiunzione tra il proprio corpo e l’idea che si ha di sé, producendo quella che è definita 'dismorfia digitale', basata sugli standard di bellezza filtrati dai social media. […] L’immagine digitale viene costruita alterando parti di sé apparentemente indesiderabili mediante la modifica e la correzione dell’aspetto virtuale di un individuo. Questa tipologia di dismorfia si trova all’interno dello spettro del BDD, Disturbo da dismorfismo corporeo (DSM 5), ed ha una natura digitale condizionata socialmente".

Una definizione che rende chiaro come il problema non siano i social media, i selfie o il self-editing ma il modo in cui vengono usati. Rispetto ai media tradizionali i social funzionano da cassa di risonanza in due direzioni: verso le persone continuamente esposte a contenuti che ripropongono determinati canoni e verso l’esterno, quando si pubblicano immagini ‘corrette’ ricevendo approvazione; a fare la differenza quindi può essere la consapevolezza di ciò che si condivide per non alimentare il circolo vizioso. Lo stesso Dr. Esho in un suo canale Youtube (non più aggiornato) mostra interventi estetici non permanenti, iniezioni e trattamenti viso, su giovani personaggi della tv o influencer con titoli come Major Makeover o The Esho Treatment, un modo per farsi pubblicità reiterando canoni estetici che tendono alla omogeneizzazione, rendendo anche chiaro come sui social il confine tra aspetto esteriore, autopromozione e pubblicità non sia sempre così netto.

Le richieste di interventi estetici nelle fasce più giovani della popolazione sono un altro aspetto della questione: secondo le statistiche globali 2021 dell’International Society of Aesthetic Plastic Surgery (ISAPS) gli interventi chirurgici sono aumentati di nuovo dopo la flessione del 2020 e quelli non chirurgici sono cresciuti per il settimo anno consecutivo. Questa seconda tipologia è anche la più diffusa nella fascia 19-34 anni e l'Italia è all'ottavo posto al mondo per numero di interventi. Capire quindi dove rompere il cerchio diventa complicato, ma le risorse che la Rete può mettere a disposizione sono la risposta più immediata e capillare.

Aver presente la differenza tra medium e contenuti è fondamentale per immaginare i livelli di intervento su una questione così sfaccettata che ha necessità di un approccio stratificato, a partire da quello legislativo. Un esempio è il cosiddetto Decreto Photoshop varato in Francia nel 2017 che obbliga le immagini commerciali a riportare la dicitura "foto ritoccata" per non diffondere visioni distorte del corpo e impone ai modelli di avere un certificato che indichi una massa corporea definita salutare; la Norvegia nel 2021 ha approvato invece una legge che obbliga a indicare le foto ritoccate sui social. Altre scelte che vanno nella stessa direzione sono anche quelle dell’Unione Europea che ha chiesto a Meta di rivedere il proprio approccio riguardo la pubblicità targettizzata o la Gran Bretagna che ha scelto di imporre strumenti molto più rigidi per la verifica dell'età nelle iscrizioni ai social media.

Oltre a questo si sta anche diffondendo sempre più una nuova consapevolezza riguardo ai corpi e la discussione su che cosa sia accettato e cosa no, ma soprattutto cosa dovrebbe esserlo: progetti artistici, attivismo o anche semplice opportunità per migliorare la propria reputazione, si muovono verso una visione più inclusiva e sana della vita sociale e digitale. Accusare la tecnologia di perpetrare stereotipi tossici è solo un modo di distogliere l'attenzione dal centro della questione: le persone dietro le idee, non i mezzi con cui vengono diffusi.

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